Terracotta, di Mariam Tarkeshi





Un'avvocatessa in carriera e ricchissima che si innamora di un nano da giardino. 

Prompt inviato da noizez_reads 




La pioggia la senti in modo completamente diverso, quando sei fatto di terracotta. Colpi incessanti che martellano su una superficie dura, riecheggiando nel tuo corpo vuoto. Questa è la prima cosa che ho imparato.
La seconda è che è impossibile trovare un surrogato soddisfacente per il calore umano. Ma non si smette mai di provare.
Per un tempo indefinito sono rimasto steso a fissare il cielo, senza sapere chi fossero le persone che sentivo parlare e camminare tutt’intorno, incapace di voltarmi a guardare, completamente paralizzato. A quel punto non avevo ancora realizzato cosa mi fosse successo. Sapevo solo di aver sentito un orribile tonfo liquido, e poi di essermi svegliato con gli occhi incollati alle stelle. È stato solo quando Antonella ha deciso di portarmi a casa con sé, che ho scoperto di essere un nano da giardino. Di quelli decorativi. Cappello a punta, gote rosse e barba bianca. Tutto l’ensemble. 
«E quello che sarebbe?» L’uomo veramente simpatico che, storcendo la bocca in una smorfia e guardandomi in cagnesco, ha fatto questa domanda, si chiamava Roberto, ed era suo marito. L’ho capito subito perché Antonella l’ha baciato, quando è entrata in casa tenendomi sottobraccio, e perché ho visto la fede al suo dito.
«Un nano da giardino» ha replicato disinvolta Antonella, ed è qui che il mondo mi è più o meno crollato addosso.
Ancora sporco di fango, sono stato appoggiato sul tavolo sgombero della cucina, e Roberto ha lasciato andare un lungo sospiro. Mi ha dato le spalle, troppo impegnato a soffriggere la cipolla sul fuoco per rivolgermi anche solo un altro cenno di attenzione. «Levalo da lì,» ha detto, «è disgustoso.»
«Volevo dargli una lavata» ha risposto Antonella, guardandomi con aria amorevole.
«Potevi farlo prima di appoggiarlo sul tavolo dove mangiamo» ha sibilato Roberto.
Ripeto, un uomo simpatico. Anche se in quel momento non aveva tutti i torti.
«Tra l’altro che ce ne facciamo di un nano da giardino?»
A questo punto la mia testa era sotto l’acqua corrente del lavello. Immobile, ho osservato lo scarico mentre si riempiva di un liquido tra il marrone e il rossastro.
«Non è un po’ kitsch?» ha continuato.
Antonella ha scrollato le spalle, mi ha asciugato e credo che per un attimo mi abbia stretto al suo petto. «Forse,» ha sospirato, «ma a me piace.»
E in effetti doveva essere stato proprio quello, il motivo per cui mi aveva raccolto. Abbandonato com’ero in un giardino, rovesciato sul terreno fangoso, lei ha deciso di prendermi. Di portarmi con sé. Credo che ci sia una canzone dei The Fray, da qualche parte, che darebbe l’idea di come mi sono sentito, ma non sono mai stato un grande fan dei The Fray e, per come sono messo al momento, non c’è verso che io riesca a ritrovarla. 

Una mattina li ho sentiti discutere. I tacchi di Antonella battevano forti sul vialetto, mentre la donna si allontanava verso l’automobile con il volto arrossato e contratto. «Non ci pensare neanche!» ha gridato, spalancando lo sportello del guidatore. «Se torno a casa e non lo ritrovo al suo posto…»
«Antonella!» le ha urlato dietro il marito. «Non pensi che potrebbe servirgli!? Non ti sei chiesta neanche per un secondo se quello che stavi facendo fosse legale!? No, certo che no! Tu fai sempre quello che ti passa per la testa, mai una volta che pensi alle conseguenze!»
A quel punto Antonella ha trattenuto il fiato, la porta dell’auto ancora socchiusa. «Sono un avvocato» ha risposto, sforzandosi di mantenere la calma. «So quello che faccio.»
«Ma se fosse stata una prova…»
«Ho detto che so quello che faccio!» ha strillato lei allora. «Cristo, Roberto! Non mi pare che io venga in salumeria a dirti come devi fare il tuo lavoro!»
Lo sportello si è chiuso. La macchina è uscita dal vialetto in retromarcia.
Roberto è rimasto a fissarmi ancora per qualche secondo, prima di tornare dentro casa.

Antonella si è fatta rivedere solo dopo il tramonto, i lunghi capelli biondo cenere sistemati in una crocchia disordinata e un paio di occhiali da lettura sul naso. È stato in quel momento, che mi sono reso conto di quanto fosse bella. Di quanto la gonna a tubino le fasciasse i fianchi in modo perfetto e di quanto la camicia, seppur stropicciata, le calzasse a pennello.
«Sono contenta di rivederti.» Si è inginocchiata davanti a me e mi ha parlato come se potessi risponderle. «Temevo sul serio che Roberto ti avrebbe buttato e… oddio.» Si è massaggiata la fronte. «Forse avrebbe fatto anche bene.»
Come sempre sono rimasto muto e immobile, mentre si avviava verso il portone.
«Devo essere impazzita» l’ho sentita mormorare tra sé e sé. «Devo essere completamente impazzita.»

Un giorno Antonella è corsa in giardino piangendo. È difficile rendersi conto del tempo che passa, quando sei un nano da giardino, ma dovevano essere ormai trascorse un paio di settimane, dal giorno in cui mi aveva raccolto. «Basta,» ha singhiozzato, «non ce la faccio più. Non ce la faccio più a vederti qua fuori, tutto solo, sotto la pioggia, e il vento, e…»
Ho lasciato che mi stringesse a sé, come tante altre volte, non solo perché non avrei potuto fare altrimenti. C’era qualcos’altro, che mi legava a lei. E Antonella doveva sentirlo. Era l’unica spiegazione vagamente plausibile.
«Lo so che sei solo un nano da giardino, e che non puoi sentirmi, e che… insomma, sei solo un pezzo cavo di terracotta dipinta. Io lo so, ok?» L’ho sentita tirare su col naso. «Ma c’è una parte di me che… che non riesce ad accettarlo, questo. Hai presente quando sei piccolo e ti regalano un peluche?» Mi ha sollevato e mi ha riportato in casa con sé. «E tu ci giochi insieme, e ci dormi insieme, e… e quando ti svegli, nel bel mezzo della notte, e lo trovi per terra, tu…» Mi ha appoggiato sul comodino all’ingresso e mi ha guardato dritto negli occhi. «Tu ti senti una merda. Ti senti una merda per averlo lasciato cadere.»
Stranamente sì, ce l’avevo presente. Questo è stato il momento in cui mi sono reso conto che forse avrei lasciato questo mondo come nano da giardino, ma non era così che ci ero arrivato. È stato il momento in cui ho capito che prima di diventare un pezzo di terracotta, io… ero qualcos’altro.
«No, certo che no» ha mormorato.
E invece sì, avrei voluto risponderle.
«Non so perché mi sto spiegando con un nano da giardino.»
Puoi spiegarmi tutto quello che vuoi, avrei voluto rassicurarla.
«Sto uscendo di senno.»
E invece sei l’unica che ci sta capendo qualcosa, avrei voluto urlarle.
Ma non potevo.
Non ancora, per lo meno.

«Come procede il caso?» Erano seduti a tavola, quando Roberto le ha rivolto questa domanda. A un certo punto, non saprei dire quando, Antonella ha preso l’abitudine di portarmi sempre con sé, dentro casa, come se non volesse mai perdermi di vista. Quando cucinava mi metteva accanto ai fornelli. Quando dormiva mi appoggiava sullo scendiletto. Ero con lei persino quando andava in bagno.
«Lento» ha borbottato lei, scuotendo la testa con aria abbattuta. «Ma da ciò che vedo, dubito che il mio cliente ne uscirà completamente pulito. Anche se il fatto che non abbiano ancora trovato l’arma del delitto mi fa sperare. Insomma, quel ragazzo potrebbe essere semplicemente caduto. La gente cade e si rompe la testa ogni giorno.»
Roberto ha annuito in silenzio, mentre l’orologio ticchettava sulla parete.
«Solo che non sono sicura di fare la cosa giusta.»
Il marito le ha rivolto un’occhiata interrogativa.
«Voglio dire…» ha mormorato la donna. «Forse c’è un motivo, se questo caso mi sembra impossibile. Il cliente continua a giurare e spergiurare di essere innocente, ma… cosa ci faceva, allora, in quella casa?  E se io continuassi a difenderlo, nonostante i miei dubbi, che persona sarei? Non è per questo che mi sono laureata in legge.»
Roberto ha finito di masticare, per poi deglutire sonoramente, attonito. «Credi che sia stato davvero lui?» le ha domandato.
«Ne sono praticamente sicura.»
Se c’è una cosa positiva, nell’essere un nano da giardino, è che puoi sapere tutto di tutti. Gli altri, invece, non sanno niente di te.

Il calore umano. Ecco una cosa che, anche quando Antonella mi teneva sulle sue ginocchia, seduta in giardino mentre leggeva un libro, continuava a mancarmi. Il mio corpo è quasi del tutto insensibile, oltre che immobile. Nonostante lei si convincesse di farmi stare bene, quando mi accarezzava, in me montava solo un’immensa rabbia. Quel genere di rabbia che ti monta quando vorresti qualcosa che non puoi avere.
Ciononostante, poteva anche essere piacevole. Mentalmente, visto che di me non è rimasto altro. Sapere che lei voleva starmi vicina, che non mi avrebbe abbandonato per nulla al mondo, era già qualcosa. Sapere che mi voleva bene. Che in un modo che ancora non era riuscita a comprendere, mi amava.
Ovvio che suo marito non fosse affatto contento. Immagino che anche lui, in un certo senso, sapesse che c’era qualcosa che non andava. In qualche modo doveva sentirlo, che non ero un comune nano da giardino, altrimenti non sarebbe stato così furioso. Doveva sentirlo, che io ero stato più vicino a sua moglie di chiunque altro. Che l’avevo persino vista nuda.
«Devi smetterla.» Quel giorno ci ha raggiunti sul portico e mi ha strappato dalle sue braccia. «Sei ridicola, Antonella. Ridicola.»
Non ero mai stato raccolto da Roberto, ma non mi piaceva. Mi ricordava una brutta sensazione che avevo già provato, ma che in quel momento non riuscivo a inquadrare.
«Questo caso ti sta dando alla testa. Non so che problema hai, con questo cazzo di nano, ma devi smetterla.»
Antonella è scattata in piedi, facendo cadere il libro a terra. «Ridammelo. Non osare…»
«Buttarlo? È esattamente ciò che voglio fare.»
«NO!» Antonella gli si è avventata contro, ma lui l’ha respinta. «No, ti prego, lascialo stare! Lui è… è mio, tu non puoi…»
«Ma ti senti, quando parli!?» ha tuonato lui. «Ti rendi conto di che scenata stai facendo per un cazzo di nano da giardino!? Te lo porti dappertutto! Uno torna a casa da lavoro e vorrebbe rilassarsi con sua moglie, magari farsi anche una sana scopata di tanto in tanto, e invece no! INVECE DEVE ESSERCI SEMPRE QUESTO MERDOSO NANO DA GIARDINO CHE MI FISSA, OGNI GIORNO! È INQUIETANTE, PORCA PUTTANA! E QUESTO SORRISO DA PEZZO DI MERDA CHE SI RITROVA!? GUARDALO!»
Antonella è rimasta in silenzio, mortificata.
«VORREI INVESTIRLO CON LA MACCHINA!»
«Devi lasciarlo stare» ha ripetuto Antonella, gli occhi bassi. «Ti prego. So che non mi capisci, ma…»
«Oh, invece ti capisco benissimo» l’ha interrotta Roberto, esibendosi in una breve risata cupa. «Di solito le donne, quando scoprono di non poter fare figli, prendono un gatto. Doveva capitare a me, la schizofrenica del cazzo.»
«Non ho mai voluto un figlio.»
«Certo, raccontalo a te stessa, vedi se ti senti meglio.»
Antonella ha di nuovo provato ad afferrarmi, ma Roberto mi ha sollevato in alto, sopra la propria testa.
«Non l’ho mai voluto» ha ripetuto la donna. «Tantomeno con uno stronzo come te.»
Non posso andarmene. Questo lo so perché, quando Roberto mi ha scaraventato al suolo e i miei pezzi sono volati in tutte le direzioni, sono rimasto. Non sono volato in paradiso, non sono precipitato all’inferno. Antonella ha pianto per qualche minuto, inginocchiata accanto ai miei cocci sparsi sul portico, mentre Roberto prendeva la macchina e se ne andava chissà dove. Poi mi ha raccolto con un panno e mi ha portato in cucina, dove per ore si è impegnata a rimettermi a nuovo. La colla ha tenuto. Il suo sorriso è tornato.
«Mi dispiace, piccolo.» Mi ha accarezzato. «Non doveva farti questo. Era stressato. Non so perché ti tratti così, perché non riesca semplicemente ad accettarti. Dio, vorrei solo che la smettesse. Che ci lasciasse in pace.»
Non lo farà, avrei voluto dirle. Sta cercando di separarci.
E nonostante io non sia riuscito a muovere le labbra, nonostante io non abbia emesso alcun suono, Antonella ha sgranato gli occhi.
Questo è stato il momento in cui, per la prima volta, mi ha sentito davvero.

Ci ha messo un po’, a rendersene conto. Chiaro che all’inizio abbia cacciato un urlo e sia corsa lontano. Ho avuto paura che da lì in avanti mi avrebbe ignorato, che non mi avrebbe più guardato e coccolato allo stesso modo, o che addirittura mi avrebbe buttato, ma alla fine è tornata. Qualche ora dopo mi si è seduta davanti e ha detto: «Lo sapevo. Sapevo che era tutto vero.»
Al suo posto, nel sentire un nano da giardino parlare, avrei pensato di tutto, tranne di averlo sentito sul serio. Anzi, l’avrei considerata una prova inconfutabile della mia follia. Meno male che qualcuno è ancora in grado di sognare.
«Quello che ha detto Roberto… lo sai, che non è vero. Non ti ho mai visto come un figlio. Ripeto, non l’ho mai desiderato. Quando il medico mi ha detto che non potevo averne è stato un sollievo. È Roberto, che non riesce ad accettarlo.»
Le ho creduto. Per quanto sembri assurdo, sapevo che l’amore che provava nei miei confronti era ben diverso dall’amore di una madre per il proprio figlio. Lo definirei “carnale”, se non fosse che di carne non me n’è rimasto neanche un pezzo. Anche Roberto l’avrebbe capito, se avesse saputo cosa faceva Antonella quando lui non era in casa. Se avesse saputo di come, certe volte, mi infilava sotto le coperte.
«Dentro di te c’è qualcosa» ha detto la donna. «Non sei vuoto. Non sei un semplice pezzo di terracotta.»
Credo di essere stato un uomo, una volta.
Per qualche motivo, Antonella ha sentito anche questo. Ha sgranato gli occhi e poi si è lasciata andare in un risolino. «E cosa ti è successo? Come faccio a tirarti fuori di lì e… farti tornare quello che eri?»
Non lo so. Non credo che sia possibile. Neanche lo so, che cos’ero.
Antonella ha sospirato, abbattuta. «Lo sai, l’ho capito subito. Dal momento in cui ti ho visto in quel giardino. Ce n’erano altri, di… sai, di nani, ma tu… per qualche motivo, tu mi attiravi. Credo di aver avvertito il tuo grido di aiuto. Da quanto tempo eri lì?»
Non lo so.
«Non mi spiego come i Giacchetti non se ne siano accorti prima.»
I Giacchetti?
«La tua presenza è così… ingombrante. No, non fraintendermi. Ma è per questo, che Roberto ti odia. Perché averti intorno è proprio come avere un’altra persona, con te, in carne e ossa. È una sensazione che agli altri dà fastidio, ma per me è diverso.»
Hai detto Giacchetti?
«Forse ne avevo bisogno.»
Ripeto, è impossibile trovare un surrogato soddisfacente per il calore umano, ma non si smette mai di provare. E il tentativo di Antonella dev’essere stato questo.
Io conosco i Giacchetti, le ho detto.
«Beh, è normale, vivevi nel loro giardino.»
No, io…
È stato allora, che Roberto ha fatto il proprio ingresso trionfale. Ho sentito i suoi passi scoordinati, da ubriaco, raggiungerci in cucina, e le chiavi cadere sul tavolo con un tintinnio. «L’hai riparato» ha biascicato alle mie spalle. «Meglio. Così potrò romperlo di nuovo.»
Antonella non ha avuto paura. Sapeva quant’era importante difendermi, a quel punto, e si è parata tra me e lui, decisa a tenerlo alla larga.
«Sei pazza.» Roberto, invece, sembrava terrorizzato. Non sapevo cosa ci fosse di tanto spaventoso, in lei, perché non riuscivo a vedere nulla. Erano dietro di me, e lui continuava a ripetere: «Sei pazza, Antonella, sei completamente pazza. Davvero preferisci lui, a me?» In quel momento sembrava che lo sapesse anche lui. Sembrava che entrambi fossero pienamente consapevoli della presenza di un’altra persona, nella stanza. «Non ci posso credere. Dopo tutti questi anni, tu…»
«Lui mi ama, Roberto! Mi ama come tu non mi hai mai amata, e io amo lui! “Dopo tutti questi anni”, hai detto bene. Dopo tutti questi anni sento finalmente qualcosa!»
Un urto. Rumore di vetri rotti.
«Dopo tutti questi anni sento calore, Roberto!»
Due corpi che si scontrano.
«E non ho più bisogno di te» ha aggiunto Antonella, la voce rotta di chi sta digrignando i denti e compiendo uno sforzo disumano. «Perché finalmente so che non ha senso aspettarti. Che non tornerai più quello di un tempo.»
Un tremendo tonfo liquido, poi uno più assordante. Le ultime parole di Roberto non sono state altro che mugolii insensati, susseguiti da un denso silenzio. E la cosa peggiore non era che Roberto fosse passato a miglior vita, né che Antonella gli avesse fracassato il cranio con un mattarello. La cosa peggiore era che proprio quando Antonella credeva che fossimo liberi, che finalmente avremmo trovato un modo di stare insieme, io mi sono ricordato cosa mi fosse successo. Questo è stato il momento in cui ho realizzato di essere morto.

Lorenzo Giacchetti. Era questo, il mio nome, finché non ho deciso di inseguire un ladro che aveva cercato di rubare nella mia casa. Vivevo con i miei genitori, che adesso saranno distrutti. Che non sapranno mai dove sono finito. Insomma, potrei anche chiedere ad Antonella di dirglielo, ma dubito che la prenderebbero bene.
Dopo aver ucciso suo marito, Antonella è rimasta seduta in cucina per un po’, singhiozzando e stringendomi a sé, del tutto ignara di come il suono del cranio sfondato di Roberto mi avesse fatto tornare tutto in mente. Lo stesso suono che ho sentito prima di perdere i sensi. Prima di risvegliarmi qua dentro.
«Devo liberarmi di lui» ha detto. «Non possiamo tenerlo qui con noi. Ma dove lo porto? Come faccio? Cristo santo, come cazzo faccio?»
Io non sapevo cosa risponderle, o forse non ne avevo la minima voglia. Non riuscivo a smettere di pensare a come gli fossi corso dietro, a quel ladro, a come l’avessi inseguito fuori casa, incespicando tra i fiori che mia madre aveva piantato. A come si fosse fermato, a un certo punto, e a come io avessi cercato di bloccarlo. A come si fosse chinato a raccogliere uno dei miei nani da giardino. A come l’avesse usato per rompermi la testa, per poi lasciarmi a sanguinare sull’erba. Non so come sia successo, ma la mia anima deve essersi incastrata qui dentro. Questo corpo di terracotta è stato la mia fine e la mia salvezza.
«Ti prego, rispondimi.» Antonella ha cominciato a dondolare sul posto. «Dimmi cosa fare. Dev’esserci un motivo, se sei stato mandato da me. Devi sapere cosa fare
Non puoi nasconderlo, le ho risposto, pensando agli ultimi attimi della mia vecchia vita. Devi dire che è stata legittima difesa, ho aggiunto, pensando ai primi istanti della nuova.
«Cosa? Ma lui non mi ha…»
Capiranno che era ubriaco. Ti crederanno. Lui era un salumiere, tu sei un avvocato.
Antonella mi ha appoggiato nuovamente sul tavolo e si è presa la testa tra le mani, come se le mie parole le avessero appena riportato alla mente qualcosa. «Dio santo, il caso… domani c’è l’udienza, devo lavorare sul caso.»
In un attimo, tutto mi è diventato ancora più chiaro.
Antonella, scusami se questa domanda ti sembrerà inopportuna, ma… dove hai detto che mi hai trovato?  

Commenti

  1. Dal titolo pensavo fosse una di quelle storie che avrebbero fatto ridere e che non avrebbero avuto un vero senso logico. invece mi è piaciuto da pazzi... è strano come una storia cosi bizzarra si sia trasformata in una storia seria, verso la fine mi sono venuti i brividi quando si è saputo che il nano avesse una vita precedente. davvero complimenti continuerò a leggere le prossime storie =) un bacio.

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  2. Bizzarro e al tempo stesso intrigante; non sono riuscita a staccarmi dalla storia, curiosa com'ero, e dato che la trama si sviluppa in un crescendo di rivelazioni dall'esito imprevedibile. Complimenti!

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